Platone

Martino Sacchi
Battute: 48.571

Scarica il file PDF impaginato

Platone è uno dei più importanti filosofi dell’Occidente. La sua visione dell’essere, dell’uomo, della conoscenza, della natura, della politica, dell’arte ha condizionato per molti se­coli, direttamente o indirettamente, tutta la filo­sofia, e in un certo senso continua a influenzarla ancora oggi. In certi periodi è stato addirittura identificato con LA filosofia, tanto che un pitto­re come Raffaello raffigurando agli inizi del Cinquecento nel celebre affresco noto come La scuola di Atene una complessa allegoria della fi­losofia e anzi della ragione umana in quanto tale, lo colloca al centro della composizione, ac­canto al suo grande discepolo Aristotele, per in­dicare il suo ruolo centrale nello sviluppo del pensiero occidentale. Un filosofo inglese della fine dell’Ottocento, Alfred North Whitehead, ha potuto scrivere: «The safest general characteri­zation of the European philosophical tradition is that it consists of a series of footnotes to Plato».
Naturalmente accanto a pensatori che hanno esaltato Platone ce ne sono stati altri che lo han­no contestato: forse uno dei suoi critici più fa­mosi è il pensatore tedesco Karl Popper che nel suo La società aperta e i suoi nemici ha indicato Platone come il padre di tutti i regimi totalitari, insieme a Marx e a Hegel.
In ogni caso la ricchezza e la profondità delle ri­flessioni di Platone, unite alla bellezza dei testi che le contengono, ne fanno uno dei punti di ri­ferimento fondamentali di tutto il pensiero occi­dentale.

Cosa ci ha lasciato Platone?


Platone ci ha lasciato un corpus notevole di scritti: 34 Dialoghi, l’Apologia di Socrate e una raccolta di lettere. In effetti è l’unico filosofo dell’antichità di cui possediamo l’opera comple­ta: non si ha notizia di opere platoniche andate perdute.
Queste opere sono giunte a noi senza nessuna indicazione cronologica: è impossibile quindi conoscere il momento in cui sono state realizza­te. Ciò rappresenta un grave problema, soprat­tutto per i Dialoghi, perché il pensiero di Plato­ne non è monolitico, cioè fisso e statico, ma si evolve nel tempo per rispondere alle obiezioni che gli venivano mosse. Assume quindi una grande importanza sapere quando le singole opere sono state scritte, o almeno conoscere l’ordine nel quale sono state realizzate. A parte l’Apologia di Socrate, che descrive la difesa di Socrate al processo e che non è un vero e pro­prio dialogo, e le lettere, che a parte la Settima lettera sono documenti brevi e di trascurabile importante, l’attenzione degli studiosi si è con­centrata sui Dialoghi: è quella che talvolta viene chiamata questione platonica.
Gli specialisti del settore hanno lungamente ana­lizzato i testi sulla base di criteri stilometrici, dell’evoluzione del contenuto concettuale e dei riferimenti a fatti ed eventi noti della storia gre­ca, e hanno stabilito questa sequenza, sulla qua­le oggi c’è una sostanziale concordanza:

Prima di tutto, dei 34 Dialoghi attribuiti a Plato­ne sei (Epimonide, Alcibiade II, Amanti, Ip­parco, Teage e Minosse) vengono oggi conside­rati spuri. Rimangono quindi 28 dialoghi ricono­sciuti come autentici. Questi testi si possono di­videre in tre gruppi:

Dialoghi giovanili


Sono i dialoghi scritti dopo la morte di Socrate e i viaggi in Italia, fino alla fondazione dell’Acca­demia, e quindi approssimativamente tra il 395 e il 387 a.C.. Sono dialoghi piuttosto brevi (tra le venti e le trenta pagine nelle versioni a stam­pa moderne) che si ispirano direttamente alle te­matiche socratiche.

Dialoghi della maturità


Vengono scritti dopo la fondazione dell’Accade­mia e quindi spaziano circa tra il 387 e il 368 a.C. Generalmente sono dialoghi narrati, da So­crate o altri. Viene individuata all’interno di que­sto gruppo una ulteriore divisione tra un gruppo di dialoghi di transizione tra la fase socratica e un secondo gruppo di dialoghi in cui si manife­stano le grandi tematiche platoniche.


Dialoghi dialettici


Sono scritti nell’ultima fase della vita di Platone (365-347 a.C.) e contengono le riflessioni sui temi più difficili e complessi del pensiero del fi­losofo.

Come possiamo interpretare Platone?


Nei secoli si sono prodotte numerose interpreta­zioni del pensiero di Platone.
• La prima, legata alla corrente filosofica del neoplatonismo, vede in Platone essenzialmente una problematica religiosa e metafisica;
• la seconda, sviluppata soprattutto nel corso dell’Ottocento, insiste sulle teorie gnoseologiche e ontologiche come chiave di lettura fondamen­tale
• la terza vede nel tema della politica, e in particolare della giustizia, l’energia fondamenta­le del suo pensiero
• una quarta interpretazione infine, la più re­cente di tutte, si rifà alle cosiddette «dottrine non scritte»

La molla della politica

[mappa del pensiero di Platone]
Platone era perfettamente inserito nella cultura ateniese e da giovane, come tutti suoi coetanei, aspirava a una vita politica che lo portasse a una posizione di evidenza nella città. A questo desti­no sembrava condurlo anche il suo DNA, per così dire, dal momento che era discendente per parte di padre da Solone, il primo legislatore ateniese, e per parte di madre da Codro, l’ultimo re di Atene.
Invece la strada di Platone fu diversa da quella dei suoi compagni.
L’esperienza del degrado politico di Atene fu la molla che convinse Platone della necessità di una nuova fondazione politica, non più basata sulla tradizione o sulla nuova forza della ric­chezza, ma sulla filosofia.
Lui stesso ci racconta questa «conversione» in un documento famoso e importante, la cosiddet­ta Settima lettera.
In questo testo Platone mette a fuoco uno dei di­lemmi più importanti di tutta la riflessione filo­sofica occidentale, ossia il contrasto tra la ricer­ca della verità e il potere, e propone la sua solu­zione, imperniata sulla figura del re-filosofo:
ha diritto a governare solo colui che conosce ciò che è bene per sé e per gli altri cittadini. La co­noscenza quindi è l’unico autentico fondamento del potere.

La polemica contro i sofisti


La cultura ateniese della fine del V secolo era dominata dai grandi sofisti come Protagora e Gorgia che proponevano un’idea di sapere e di politica completamente diversa da quella socra­tica.
Per i sofisti non esiste la possibilità di giungere alla verità (anzi, la verità stessa non esiste). Quello che rimane è dunque la possibilità di usare la parola per persuadere gli interlocutori ad accettare la propria posizione, senza che que­sta possa per altro pretendere di essere migliore delle altre.
La sofistica eristica spinge questa posizione alle estreme conseguenze, riducendo il dibattito filo­sofico a una semplice schermaglia linguistica fi­nalizzata a stupire il pubblico di spettatori.
Platone entra subito in polemica sia con i sofisti eristici (di cui condanna la mancanza totale di una finalità etica e di ricerca) sia con i sofisti maggiori e proprio sul punto centrale del loro insegnamento.
Platone infatti sostiene la possibilità di costruire un sapere rigoroso e fondato (in greco episteme) che sia a sua volta la base su cui ricostruire la vita associata.
Il problema politico si trasforma quindi per lui in un problema filosofico: la domanda «come è possibile costruire una società giusta?» si tra­sforma nella domanda «come è possibile co­struire un sapere vero?»

Come si raggiunge la conoscenza?


Se la conoscenza è il fondamento del potere, si tratta allora di capire se e come è possibile otte­nere una conoscenza stabile e certa. La nuova e originale posizione platonica si forma alla inter­sezione tra l’esperienza socratica e quella pita­gorica.
Socrate infatti, maestro e amico di Platone, ave­va dimostrato la possibilità, tramite ironia e ma­ieutica, di raggiungere l’omologhia, ossia l’accordo razionale sulle premesse del ragiona­mento.
I primi dialoghi scritti da Platone rispecchiano questa convinzione, e insieme sembrano indi­care il desiderio di Platone di oltrepassare le po­sizioni di Socrate, soprattutto cercando un fon­damento della filosofia socratica.
Durante il primo viaggio in Italia Platone scopre la matematica come sapere rigoroso, capace di obbligare il pensiero ad accettare anche tesi con­trarie all’esperienza sensibile (come per esempio l’incommensurabilità del lato e della diagonale, implicita nel teorema di Pitagora).
La somiglianza di queste esperienze, pur così lontane, convince Platone che esiste per entram­be una condizione di possibilità comune. Su questa base il filosofo ateniese costruisce una delle più importanti e significati visioni del mondo prodotte dalla cultura greca ed occiden­tale.

L’allegoria della caverna


Nella sezione centrale di uno dei dialoghi più importanti, la Politeia, Platone raccoglie in un solo, complesso racconto i molti aspetti della sua riflessione.
La condizione degli uomini, dice Platone, asso­miglia a quella di persone costrette sin dall’infanzia a vivere nel fondo di una caverna molto profonda e obbligati dalle catene a guar­dare solo verso il fondo della caverna. Dietro i prigionieri c’è un terrapieno su cui corre una strada, chiusa da un muretto. Dietro la strada c’è un fuoco e sulla strada passano delle persone che trasportano sulle spalle ogni genere di og­getti.
I prigionieri vedono solo le ombre di questi og­getti, proiettate sul fondo della caverna, e sono inevitabilmente condotti a credere che proprio le ombre siano la vera realtà.
Ma se uno dei prigionieri, per caso, riesce a li­berarsi e a voltarsi indietro, prima di tutto si ac­corge che quello che fino a quel momento ha creduto essere la «vera realtà» non è altro che ombra e illusione prodotta dal fuoco e dagli og­getti trasportati sul terrapieno; se poi riesce a ri­salire fino all’aperto, scopre che anche questi oggetti non sono altro che la copia di ciò che sta fuori dalla caverna, che è la vera, autentica real­tà.
Chi è giunto a contemplare il mondo esterno, con la sua luce e i suoi colori, deve secondo Pla­tone ritornare nella caverna per cercare di sal­vare i suoi compagni. Qui però l’attende una sor­te imprevista e spiacevole: chi è rimasto in fon­do alla caverna infatti non vuole credere a chi è uscito dalla caverna, anzi lo deride e lo perse­guita, giungendo perfino a ucciderlo.

Come si può interpretare l’allegoria della caver­na?


Nel racconto della caverna Platone costruisce una simmetria molto forte tra i vari aspetti dell’allegoria e le tappe dell’esistenza umana. La narrazione descrive prima di tutto una situazione (quella degli uomini in generale) e poi una sto­ria (quella di un uomo in particolare che riesce a cambiare la propria situazione).
La prima distinzione da fare è quella tra esterno e interno: il mondo fuori dalla grotta è quello della luce e della verità, che possono essere rag­giunte con la conoscenza razionale, mentre l’interno della caverna con la sua oscurità sim­boleggia la conoscenza incerta o falsa che può essere data dalla conoscenza dei sensi .
Questa distinzione non vale solo sul piano gno­seologico, ma anche su quello ontologico: ciò che sta all’interno della caverna ha «meno esse­re»”, per così dire, di ciò che sta fuori, esiste in modo meno autentico e vero.
La simmetria tra conoscenza e essere è fonda­mentale in Platone, perché serve a giustificare la differenza qualitativa dei due tipi di conoscenza: la conoscenza intellettiva è «qualitativamente» superiore rispetto a quella fornita dai sensi pro­prio perché permette di cogliere un livello di realtà ontologicamente superiore rispetto al li­vello di realtà colto dai sensi.
La divisione tra esterno e interno della caverna corrisponde quindi in definitiva alla divisione tra episteme e doxa, ossia tra sapere rigoroso e fondato da una parte e semplice opinione dall’altra.
La condizione degli schiavi incatenati corri­sponde alla condizione nella quale si trovano normalmente tutti gli uomini, portati natural­mente dalla situazione e dalle convenzioni so­ciali a ritenere che la autentica realtà sia quella delle apparenze proiettate sul fondo della caver­na.
Platone non dice esattamente come ci si può li­berare da questa condizione: allude solo a una «sorte divina». Certo è che colui che si libera dalle catene è chiamato a un lungo e difficile cammino, simboleggiato dalla salita lungo l’erta della caverna. Infatti egli deve
• riconoscere che gli oggetti trasportati sulle spalle dagli uomini sulla strada sono la causa delle ombre che vedeva sul fondo della caverna, e quindi accettare il fatto che tali oggetti siano più reali di ciò che fino a quel momento aveva creduto fosse l’unica realtà
• superare anche il terrapieno e uscire all’aper­to, ossia abbandonare il mondo cono­sciuto dai sensi adattarsi alla sua nuova condi­zione, guardando la realtà più in ombra e attra­verso dei «riflessi»
• riconoscere che tutti gli oggetti contenuti nella caverna erano solo copie degli oggetti fuo­ri della caverna
• infine, una volta che la vista si è abituata, ri­volgere lo sguardo in alto e vedere il sole, che è causa dell’essere e della conoscibilità di tutte le cose

La linea quadripartita


Platone stesso subito dopo aver presentato il mito del caverna riformula le stesse tesi sul pia­no gnoseologico con l’immagine della cosiddetta «linea quadripartita».

Si tratta di una immaginaria linea verticale, divi­sa in due segmenti:
• quello inferiore rappresenta la doxa, ossia la conoscenza sensibile caratterizzata dalla mute­volezza e che cambia continuamente sia nel tempo sia a seconda dei singoli soggetti cono­scenti
• quello superiore rappresenta l’episteme, os­sia il sapere rigoroso e fondato caratterizzato dalla stabilità, dalla immutabilità e dalla tra­smissibilità.

Ciascun segmento però a sua volta diviso in due parti:
• eikasia, ossia la conoscenza vaga, attraverso i sensi, di un oggetto che non gode di chiara evi­denza (per esempio, eikasia è la conoscenza che si può avere di una persona molto lontana in condizioni di luce insufficienti, oppure quella di un’automobile che ci sfrecci accanto velocissi­ma). Eikasia viene tradotta a volte con «immagina­zione» ma si tratta di un traduzione alquanto fuorviante perché in italiano questa parola indi­ca soprattutto la capacità di produrre delle im­magini in modo spontaneo, mentre per Platone indica come abbiamo detto la forma più incerta e vaga di conoscenza sensibile.
• pistis, cioè la conoscenza attraverso i sensi di un oggetto che via posto nelle migliori condizioni possibili per essere esaminato (distanza, illumi­nazione, prospettiva e così via). È un grado di conoscenza senz’altro più sicuro e valido della eikasia, ma rimane anch’esso abitato dalle carat­teristiche della conoscenza sensibile, che la ren­dono inaffidabile: varia nel tempo, cambia da soggetto a soggetto e si modifica a seconda delle prospettive che vengono adottate.

Anche in questo caso la traduzione tradizionale di pistis, cioè «credenza», non è molto valida (anche se deve essere conosciuta per poter dia­logare con gli altri parlanti che la adottano) per­ché lascia anche in questo caso intendere una posizione quasi fideistica (si «crede» che le cose stiano in un certo modo piuttosto che in un al­tro), posizione che è del tutto assente dal testo platonico.
Prese insieme comunque eikasia e pistis rappre­sentano la conoscenza sensibile o doxa sopra la quale si situa l’episteme (ossia la conoscenza stabile e certa). Anch’essa però, in stretta e vo­luta simmetria con la conoscenza sensibile, è composta di due segmenti:

• dianoia, ossia la conoscenza deduttiva che muo­ve da ipotesi accettate come valide e ne ricava in maniera necessaria una serie di conseguenze. Per la sua caratteristica di necessità e indubitabi­lità la dianoia si trova a un livello completamen­te diverso dalla doxa. Tuttavia non è ancora il vertice dalla conoscenza, proprio perché il punto di partenza dei ragionamenti che costruisce è solo ipotetico: potrebbe accadere che in un mo­mento successivo l’ipotesi da cui si sono prese le mosse si dimostri errata, facendo crollare tutto il ragionamento che su di essa era stato costruito. Di fatto, la dianoia corrisponde alla conoscenza matematica che appunto parte da un complesso di conoscenze accettate per vere (definizioni, as­siomi, postulati) e ne deduce tutte le conseguen­ze che è possibile ricavarne.
• noesis, cioè l’ultimo e più autentico livello della conoscenza umana, nel quale noi cogliamo di­rettamente per intuizione la autentica realtà, caratterizzata dalla immutabilità e dalla stabilità. Qui e in molti altri passaggi Platone chiama l’oggetto supremo della conoscenza umana ei­dos, una parola greca che contiene la radice del verbo «vedere» e che allude al fatto che la cono­scenza autentica è in un ultima analisi una visio­ne dell’essere, un suo manifestarsi, un suo darsi allo sguardo dell’uomo.

Anche in questo caso la traduzione italiana, «idea», è ormai inestirpabile per quanto sia mol­to fuorviante: in italiano infatti «idea» allude prima di tutto a un contenuto soggettivo della mente del singolo individuo (come quando si dice: «mi è venuta un’idea», oppure: «io ho le mie idee, tu le tue»). In Platone eidos (plurale eide) ha il significato esattamente opposto: non indica i pensieri soggettivi di una persona ma un oggetto esterno a tutti i soggetti pensanti e che proprio per questa caratteristica può imporsi a tutti come l’unica autentica verità.

Il mondo delle eide


La proposta che Platone espone nella Politeia e in molti altri dialoghi per giustificare
• sia la possibilità dell’esperienza socratica (e quindi anche la speranza di una rifondazione “giusta” dello Stato)
• sia la possibilità della matematica (e quindi anche la fondazione di un tipo di sapere netta­mente distinto da quello dei sensi)
è quindi ammettere l’esistenza reale di un insie­me di «paradigmi» (ossia modelli, forme) che possono essere colti solo dal pensiero e nel pen­siero.
Tali paradigmi o eide hanno caratteristiche op­poste a quelle delle cose che si possono vedere e toccare con i sensi. Esse infatti sono:

• immateriali
• immutabili
• indivenienti

Le eide hanno in sostanza le caratteristiche del vero essere: proprio per questo possono essere il fondamento della conoscenza autentica e, insie­me, del mondo che ci circonda.

L’anima e la conoscenza delle eide


Chi o che cosa conosce le «eide»? La risposta di Platone non lascia dubbi: le eide non sono cono­scibili con gli organi di senso corporei (vista, udito, tatto…), ma solo con le potenze dell’intel­ligenza che risiede nell’anima (psychè).
Esiste una fondamentale simmetria tra cono­scenza sensibile e conoscenza intelligibile (da una parte) e corpo e anima (dall’altra). Le carat­teristiche della conoscenza sensibile sono quelle della corporeità; le caratteristiche della cono­scenza intellegibile saranno quindi quelle della psychè.
Torneremo più avanti sul tema della psychè.
Le eide non sono «cose» immateriali, ma sono i significati delle cose materiali ed esistono indi­pendentemente dagli oggetti (o da ciò che pen­siamo con la nostra attività autonoma).
Si trovano in un livello o di realtà che Platone chiama spesso «iperuranio», un parola greca che significa «al di sopra del cielo». L’iperuranio si trova al di là dell’esperienza sensibile. Per usare una espressione che Platone non conosceva an­cora, il mondo delle eide è infatti trascendente, ossia sta al di là del mondo delle cose che si col­gono con i sensi.
Anche in questo caso il ricorso a una immagine (un luogo che è al di là del cielo) è rischioso. Parlare di iperuranio significa in realtà parlare di un luogo che non è un luogo, ma è una metafo­ra.

La conoscenza del mondo delle eide (ossia dei significati delle cose), secondo Platone è anàm­nesis cioè ricordo.
Infatti Platone sostiene che l’anima conosceva il mondo delle eide prima di unirsi al corpo al mo­mento della nascita, momento in cui s è dimenti­cata della conoscenza stabile dell’essere (vedre­mo più avanti che questa convinzione rappre­senta un delle basi per la dimostrazione della immortalità della psychè)
In altre parole secondo Platone ognuno ha quin­di dentro di sé la conoscenza delle eide che è stata dimenticata, ma che con una opportuna dialettica la si può riportare alla luce. Quando si riesce a fare ciò, si raggiunge la verità.
Questa tesi permette a Platone di interpretare in modo nuovo e originalissimo la dialettica socra­tica: se Socrate riusciva a costringere l’interlo­cutore ad abbandonare le proprie opinioni (do­xai) è perché egli aveva in qualche modo già in­tuito il mondo delle eide, sia pure senza saperlo, e sulla base di questo spingeva gli ateniesi.
In uno dei suoi dialoghi più famosi (il Menone) Platone descrive un esperimento mentale nel quale Socrate (naturalmente il Socrate platonico, non il Socrate storico) dimostra che uno schiavo che non ha mai studiato geometria, se opportu­namente stimolato con le domande giuste, può risolvere il problema della duplicazione del qua­drato, cioè uno dei grandi problemi della geo­metria antica (il problema può essere formulato così: dato un quadrato trovarne un altro con area doppia).
Il Socrate protagonista del dialogo manda a chiamare uno schiavo da parte di Menone. All’inizio lo schiavo tratto in inganno dalle ap­parenze delle figure tracciate da Socrate, cade in errore. Ma a poco a poco stimolato da Socrate riesce a raggiungere la soluzione: infatti riesce a comprendere che solo se si prende in considera­zione la diagonale del quadrato si può risolvere il problema, poiché il quadrato di su­perficie doppia rispetto ad un dato quadrato è quello che ha per lato la diagonale del quadrato.
Platone-Socrate sostiene che lo schiavo ha po­tuto raggiungere la verità perché in realtà ce l’aveva già dentro di sé, perché come tutti gli uomini aveva visto l’essere delle eide prima di nascere e quindi anche l’eidos del quadrato con tutte le sue implicazioni.

Non è un caso se Platone usa proprio la mate­matica per fornire l’esempio di cosa vuol dire conoscere: aritmetica e geometria possiedono infatti per Platone l’immenso merito di «guidare l’anima verso la verità», come ci dice lui stesso, e di creare un habitus mentale filosofico: perciò costituiscono la premessa fondamentale per lo studio della stessa filosofia.
Gli studiosi discutono sul contributo di Platone ai contenuti tecnici della matematica: il punto fondamentale è che Platone ha tentato seriamen­te per la prima volta di costruire una filosofia della matematica, teorizzando lo statuto onto­logico dei numeri e delle figure geometriche come enti intermedi tra il molteplice diveniente del sensibile e l’identità immutabile dell’idea.

La dialettica


La dialettica platonica è in generale il percorso razionale che porta dal mondo dei sensi al mon­do delle eide per poi muoversi all’interno di questo mondo.
In un senso più tecnico la dialettica corrisponde al metodo della dimostrazione scientifica, che Platone è tra i primi a codificare nei suoi dia­loghi.
Dialettico è il tipico procedimento che assume senza preliminare dimostrazione un dato princi­pio, e tenta di verificarlo o di falsificarlo La dia­lettica presenta una serie di problemi interni, re­lativi al mondo delle eide e delle cose, che Pla­tone non riesce a spiegare.

Si rende conto però che vi è una strettissima correlazione tra il lato ontologico e quello gno­seologico e che le eide non sono tutte sullo stes­so piano:

  • il primo livello, il più basso, di questo mondo è rappresentato dalle matematica e dalla geome­tria. Esse rappresentano il paradigma epistemo­logico, ossia ci mostrano come deve essere un sapere per poter essere considerato autentico. Queste due epistemai sono le più elementari e costituiscono il passaggio tra mondo sensibile e mondo delle eide;
  • il secondo livello è quello rappresentato dalle eide di tutti gli oggetti che ci circondano: un tale albero, una cosa bella o una cosa giusta parteci­pa all’eidos dell’albero, della bellezza e della giustizia. Il mondo sensibile non è dunque altro che un’imitazione delle idee, e per questo moti­vo le cose sono ciò che sono poiché hanno una relazione: «partecipano» cioè alle idee.
  • il terzo livello è formato da un gruppo di idee più importanti alla quali tutte le altre devono partecipare e fare riferimento. Tali idee sono:
  • idea di essere
  • idea di identico (ogni idea è identica a se stes­sa, e da qui
    l’idea di uguaglianza delle cose)
  • idea di diverso (non-essere): ogni idea è diver­sa dalle altre. Il non essere non corrisponde all’opposto dell’essere (ossia il puro nulla par­menideo) ma appunto al concetto di diversità (eteron);
    • idee di moto e quiete: il moto non va inteso come movimento fisico ma come l’ essere in re­lazione con le altre idee o se stesso.

Nel Fedro la dialettica è definita come la sinossi (visione d’insieme) compiuta dal filosofo nei ri­guardi della realtà molteplice, al fine di trasce­glierne gli elementi semplici che soli si possono ridurre all’unità dell’eidos intelligibile.
In questo senso, Platone contrappone costante­mente la retorica dei sofisti al vero sapere dei fi­losofi, la dialettica. Il sapere del retore è un sa­pere apparente, che scambia di frequente il vero con il falso, l’essere con il non essere. Solo il dialettico sa discriminare la verità dall’apparen­za e condurre i propri discorsi in modo tale che alle prove corrisponda il vero essere: le eide.

I rapporti tra eide e cose


In una prima fase della sua riflessione, Platone aveva sostenuto la teoria della partecipazione dell’oggetto particolare all’idea. Nel Parmenide egli mette in evidenza alcune gravi obiezioni contro tale teoria. Ammettendo che le cose par­ticolari partecipino dell’idea corrispondente, ci si chiede se esse partecipino dell’idea intera o solo a parte di essa.
Se si accetta la prima alternativa, l’idea, che è una, è presente interamente in ciascuno dei mol­ti individui e quindi è contemporaneamente «molti».
Se si sceglie la seconda, l’idea è unitaria ma di­visibile (perché formata da più «parti») nello stesso tempo.
In ogni caso si giunge ad una contraddizione, derivata dall’impossibilità che ciò che è uno sia allo stesso tempo molteplice.
Platone perciò abbandona questa posizione e formula la teoria dell’imitazione (mimesis), nel­la quale si sostiene che gli oggetti particolari siano copie delle idee, le quali rappresentano i modelli; la somiglianza degli oggetti particolari con l’idea costituisce il loro legame con essa. La difficoltà in questo caso è che per poter dire che una realtà sia copia di un’altra bisogna che ci sia qualcosa in comune tra le due, che è diverso da entrambe.
Le obiezioni del Parmenide non trovano un’effettiva risposta. Tuttavia nei dialoghi poste­riori ( in particolar moto nel Sofista, nel Politico e nel Filebo) si assiste a uno sforzo di rimodula­zione della teoria, che ne renda l’accettazione, se non pienamente conseguente, almeno non in­compatibile con le obbiezioni precedenti. Plato­ne ritorna anzi sulla nozione di partecipazione, non più riferita parò al rapporto tra le cose parti­colari e le idee, bensì a quello delle idee tra loro. Tale rapporto è concepito ora in termini di reci­proca comunanza, che consiste di conciliare uni­tà e molteplicità, staticità e movimento dialetti­co tra idee. In questa versione più matura le idee perdono l’immobilità dell’essere parmenideo, per accogliere al loro interno la complessità e la ricchezza prima esclusiva del mondo empirico e apparente.

La diaresis

Il mondo delle idee assume ora l’aspetto di un organismo complesso, riccamente specificato e articolato, che consente di dare ragione degli stessi aspetti di molteplicità e articolazione pro­pri dell’esperienza. L’attenzione si sposta sul momento della divisione (diaresis), che permet­te di ritrovare, entro l’unità dell’idea, la molte­plicità che consente di collegarla al mondo em­pirico. Ciascuna idea si articola con quelle a essa subordinate e sovra ordinate secondo preci­se regole di reciproca partecipazione o comu­nanza. Tali nessi gerarchici possono essere sta­biliti mediante una divisione. L’idea di uomo, per esempio si può trovare a partire da quella più universali di essere vivente mediante suc­cessive divisioni binarie.
Attraverso il metodo diairetico, Platone defini­sce l’uomo come bipede implume, definizione che che venne molto criticata.
Ogni idea va anzitutto distinta da quella ad essa opposta (domestico/selvatico, implume/piumato ecc.) con la quale non ha comunanza.
La divisione va inoltre compiuta in una sola di­rezione. Questo rapporto di comunanza tra idee o generi diversi è quello che consente di risolve­re il problema della verità e dell’errore. La ve­rità dei nostri giudizi è garantita infatti dalla ca­pacità di ripercorrere le oggettive articolazioni o l’interna membratura del mondo delle idee. Se­condo un’immagine che ricorre frequentemente nei dialoghi, possiamo raffigurarci il mondo del­le idee come un organismo, le cui singole parti o membra corrispondono ai generi ottenuti me­diante la diairesis.
La determinazione che viene provvisoriamente esclusa non è un nulla ma semplicemente un’altra idea che potrà tornare utile in un ulte­riore diairesis. Questo sistema funziona inoltre esclusivamente se non esistono termini interme­di tra i due concetti contraddittori.

Rimane un problema: sino a che punto posso spingere la divisione? Da un’idea universale posso discendere ad altre più particolari, ma mi avvicinerò mai all’idea corrispondente alla real­tà singola? In altre parole, potrò mai sperare di superare completamente il dualismo di idee e cose? La risposta non può che essere negativa.
Le idee, per quanto articolino la propria interna struttura in modo da avvicinarsi, per così dire, al mondo empirico, restano trascendenti. Al termi­ne estremo della divisione troveremo idee non ulteriormente «divisibili».
Vi è quindi una dialettica ascendente che si può far corrispondere a quello che nei primi dialoghi era descritto come il processo della reminiscen­za. Segue l’opposto procedimento diairetico o divisorio, che si può descrivere come discenden­te. Dividendo il genere sommo, escluderò via via determinazioni che sono estranee all’idea di partenza

La psyché


La concezione platonica dell’anima conosce una notevole evoluzione col passare degli anni:

  • Prima fase (giovanile e socratica): Platone ha una concezione socratica dell’anima, intesa come un «cosmo di virtù»; in Socrate non è chiara la concezione di psychè (principio vitale in senso ampio), però è un grado di controllare il corpo
  • Seconda fase (pitagorica). Dopo il suo primo viaggio in Italia Platone accetta una concezione pitagorica: la psychè è un «daimon» immortale, staccata e qualitativamente diversa dal corpo, che cade nel corpo per una «colpa originaria», una realtà esistente che è staccata dal corpo. Questo concetto viene espresso nel Fedone, in cui viene presentata anche la famosa espressio­ne, basata su un gioco di parole intraducibile, secondo cui
    «Il soma (corpo) è un sema (carcere)»
    Platone ritiene che l’anima e il corpo siano rigi­damente contrapposte: il corpo è male, sede di passioni che distolgono l’anima a svolgere il suo compito, ovvero la ricerca della verità. L’uomo per essere tale deve dimenticare la corporeità che deve continuamente contrastare. In questa fase centrale quindi è evidente il rigido duali­smo: la psyché è solo buona, il corpo è solo cat­tivo.
  • Terza fase (maturità): egli riconosce l’errore della formulazione del Fedone e probabilmente riflettendo sulle tragedie, ammette che l’anima sia scissa al suo interno e che possieda al suo in­terno delle forze in contrasto fra loro: il male si trova nell’anima e non nel corpo. Nell’anima sono presenti delle energie interne, in contrasto tra loro, che possono portare nella direzione sbagliata. Possiamo giungere a questa interpre­tazione dal mito del carro alato del Fedro (dove Platone si confronta con l’arte della retorica).
    Nel mito del Fedro l’uomo è paragonato ad un carro trainato da una coppia di cavalli alati e guidato da un’auriga. I due cavalli sono uno bianco, buono che si lascia guidare, e uno nero, quello cattivo che non si lasciadomare dall’auri­ga. Prima di cadere nel corpo l’anima dell’uomo seguiva il corteo degli dei fino ad arrivare ad un’erta e a poter contemplare l’ Essere. Gli dei non incontrano alcun problema durante il cam­mino perché i cavalli dei loro carri sono entram­bi bianchi e quindi sono portati ad andare nella stessa direzione e l’auriga non incontra difficoltà a domarli; al contrario il cammino degli uomini è faticoso perché i loro carri sono trainati da un cavallo bianco ed un cavallo nero che vogliono seguire direzioni opposte. La salita dal mondo sensibile a quello delle eide è molto più difficile per le altre anime, perché uno dei due cavalli è cattivo e impedisce l’ascesa; è al massimo te­nuto sotto controllo da un’ alleanza tra razionali­tà e quella parte dell’irrazionalità che può essere domata. Così, alla fine di questo cammino, i ca­valli, dopo essersi calpestati a lungo le ali a vi­cenda, finiscono per perderle e l’anima precipita nel corpo. Il compito della vita dell’uomo è quello di far ricrescere le ali in modo tale da po­ter giungere a contemplare nuovamente l’Essere.

L’intuizione che l’anima umana non è un’entità compatta, ma molteplice, significa ammettere che l’uomo è continuamente esposto al rischio della follia. Come detto precedentemente, nel mito del Fedro l’anima risulta scissa al suo in­terno:

  • la prima divisione è tra auriga e cavalli;
  • la seconda è quella tra cavallo bianco e cavallo nero.
    L’auriga può essere interpretato come metafora della razionalità, mentre i cavalli come delle for­ze psichiche non razionali di cui abbiamo bi­sogno per vivere. Il cavallo nero rappresenta la parte concupiscibile dell’anima, che lotta contro la parte razionale e non si lascia domare dall’auriga; il cavallo bianco rappresenta invece la parte irascibile, che è intermedia tra il cono­scere e il desiderare, è neutrale e può allearsi con l’una o con l’altra parte.
    Platone parla di questo mito come se ci fossero tre anime, non alludendo alla presenza di tre «spiritelli», bensì a tre differenti forme di ener­gia psichica. L’ira è la passione che sta dalla parte della ragione e che si rivolge contro noi stessi quando non si riesce a respingere il desi­derio. L’anima concupiscibile invece cede alle passioni che, lasciate a se stesse, ci possono di­struggere.
    Secondo l’interpretazione dello storico della fi­losofia Mario Vegetti, nel libro L’etica degli an­tichi, all’interno della nostra anima vi è un dua­lismo irresolubile e la psychè è dunque abi­tata da una scissione tra forze razionali ed irrazional­i, rappresentate le prime dall’auriga e le seconde dai due cavalli. I cavalli, però, sono ciò che muovono il carro: senza le passioni l’ani­ma non va avanti, non cambia. Le passioni quindi sono energia irrazionale ed essenziali per vivere, ba­sta non lasciarle incontrollate. Platone è consap­evole che l’anima possiede al proprio interno una molteplicità o scissione che provoca dolore, perché noi vorremmo esistere in modo autenti­co.

L’eros nel Simposio


Il fatto che il compito supremo dall’anima sia quello di ritornare a contemplare il mondo delle idee ripropone il tema dell’energia che deve gui­dare questa spinta: l’eros.
Riguardo a questo Platone scrive il Simposio, uno dei suoi dialoghi più celebri e più importan­ti.
Nel testo Platone espone diverse concezioni di eros (amore) in un climax ascendente, partendo da quella più semplice.
La trama è la seguente. Apollodoro, un discepo­lo di Socrate, riferisce all’amico Glaucone quan­to Aristodemo gli ha raccontato riguardo al ban­chetto offerto dal poeta Agatone nel 416 a.C. Il convivio era sta­to organizzato per festeggiare la vittoria da lui conseguita al concor­so tragico delle Grandi Dionisie. Questa occasione riunisce alcuni amici del poeta che vengono chiamati a esprimere la loro opinione su eros.
I personaggi in questione sono stati anche inter­pretati come delle maschere che esprimono non solo singole individualità ma correnti di pensie­ro dell’epoca di Socrate e di Platone. Essi sono:
Fedro (simbolo di quel tipo di uomini che sanno provocare discorsi piuttosto che farne di propri). Egli dà esclusivamente una interpretazione ma­terialistica di eros;
Pausania (il cui nome richiama la posizione filo­spartana) distingue due forme di amore: la Ve­nere terrestre che ispira una passione car­nale e la Venere celeste che ispira sentimenti nobili. Questi senti­menti nobili, non essendo una pas­sione carnale, si riferiscono anche ad un amore omosessuale;
Erissimaco, rappresentante dell’ordine dei medi­ci greci, ispirato ai filosofi naturalistici, non in­tende l’amore come una forza tra due uo­mini,o tra un uomo e una donna, ma come forza cosmi­ca (tesi di Empedocle);
Aristofane è il simbolo della commedia greca. Platone cerca di ri­trarre Aristofane come un buf­fone, che perciò non può dire cose se­rie. Egli in­fatti racconta un mito: un tempo gli uomini era­no a forma di sfera con due teste, rotolavano ve­loci ed erano potentissimi. Per questo gli Dei ne erano invidiosi così Zeus divise in due queste crea­ture: si formarono quindi uomini e donne (da questa divisione ebbe­ro origine o due indivi­dui dello stesso sesso o un uomo e una don­na) e le due metà rimasero perennemente attratte, da qui si ha un amore che porta al ricongiungimen­to.
Questo mito è citato spesso oggi per le sue so­miglianze con il significato romantico dell’amo­re: due metà che si cercano e si uniscono. Ma tale interpretazione non può essere la posizione di Platone, la quale voleva essere ironica per ri­dicolizzare Aristofane.
Agatone (icona della tragedia) dà una descrizio­ne di eros sentimentale: l’amore è per lui una sensazione di appagamento, dolcezza che ti tra­scina (amore inteso come al giorno d’oggi);
Socrate, incarnazione del filosofo greco, non parla in prima persona, ma assume la maschera della sacerdotessa Diotima, a cui affida l’esposi­zione del proprio pensiero). Caso unico nei dia­loghi platonici, Socrate non è il protagonista del dialogo, ma racconta ciò che gli ha detto la sa­cerdotessa di Mantinea. Inoltre eccezionalmente parla una donna e in più una donna che insegna ad un uomo.
La sacerdotessa Diotima racconta il mito della nascita di Eros: Eros nasce dall’unione tra Poros (ricchezza) e Penia (povertà) nel giorno della nascita di Venere. Eros non è quindi solo un dio bello, buono, ricco e felice ma è un qualcosa di mezzo tra bello e brutto, tra buono e cattivo, tra mortale e immortale, quasi un demone, poiché possiede la natura di entrambi i genitori: l’astu­zia e l’ardimento del padre, che lo spingono ad ordire complotti contro le cose belle e buone, la fame e l’indigenza della madre, che lo spingono a una continua ricerca. Eros è sofferenza, è la volontà di possedere ciò che non si ha, diventa quindi metafora per indicare l’anima del filoso­fo, che ama ciò di cui manca, cioè la sapienza;
Alcibiade che arriva solo nel finale è l’emblema del giovane dotato, ma incapace di cogliere fino in fondo il senso e le finalità del discorso di So­crate.

La città giusta


Platone con i suoi dialoghi della maturità ritorna ad affrontare il tema dello stato giusto. Lo stato platonico non ha nulla a che vedere con uno sta­to di fatto, esistente nella realtà storico – socia­le: esso cioè, è piuttosto un modello idealizzato. Nella sua idea lo stato non può derivare dal vio­lento e arbitrario imporsi di alcuni individui su­gli altri, ma da un principio semplice e naturale: la divisione del lavoro. Questa è a sua volta con­seguenza della naturale diversità dei bisogni e delle attitudini testimoniate dall’anima dei sin­goli; il singolo non può bastare a se stesso, ma deve cooperare con gli altri, mediante il lavoro, al mantenimento e alla difesa della collettività.
Platone immagina uno stato formato da tre clas­si di cittadini: i lavo­ratori, i guerrieri e i gover­nanti.
Egli esprime il concetto di stato giusto per mez­zo della similitudine tra stato e anima: deve in­fatti esistere una proporzione e una corrispon­denza tra interiorità ed esteriorità; le dinamiche della psiche riflettono dunque quelle sociali poi­ché stato e anima funzio­nano allo stesso modo.
I governanti, la cui specifica virtù è la sa grezza, sono come la parte razionale dell’anima.
I guerrieri, la cui virtù è il coraggio, corrispon­dono alla parte irascibile.
I lavoratori, che non hanno una virtù propria, ma condividono quella generale di tutto il corpo sociale, cioè la temperanza, corrispondono alla parte concupiscibile.
Quindi come esistono tre forze nell’anima, esi­stono tre classi sociali. I custodi sono coloro che incarnano la figura del re-filosofo, quindi sono i soli che hanno maggiori possibilità di apprende­re la verità, di raggiungerla. Nasce quindi una divisione tra chi conosce qualcosa della filosofia e chi no, che di conseguenza lavora.
Platone però non ha mosso la giustizia in rela­zione a qualche gruppo sociale, perché la giusti­zia è tutto l’insieme: si può raggiungere quindi solo se ogni classe sta al suo pasto e attua ciò che le compete.

Il comunismo platonico


Nei libri II-V della Politeia viene descritta un’organizzazione sociale e politica che è parsa ad alcuni «comunistica». Il principio della divi­sione del lavoro e l’esigenza di giustizia impon­gono che chi esercita un mestiere e detiene una proprietà economica, la classe dei lavoratori, non abbia diritti politici, mentre i guardiani, le classi dirigenti, non debbano avere alcuna pro­prietà ma debbano vivere in una comunione dei beni e delle donne. In caso contrario, l’avidità e le lotte che ne conseguono trasformerebbero in tirannide il buon governo della repubblica. Af­finché poi i cittadini si sentano membri di una sola famiglia e le tre classi non si trasformino in caste chiuse, i fanciulli dovevano essere sottratti in tenera età alle famiglie e allevati in comune, a cura dello stato. I saggi governanti sapranno scegliere tra loro i più adatti a divenire a loro volta guardiani, indipendentemente dalla loro origine sociale. Le femmine avranno gli stessi diritti e la medesima educazione dei maschi. Lo stato infine non dovrà assolutamente contenere al suo interno differenze eccessive di ricchezza e povertà, fonte di ingiustizie.

Il filosofo tedesco Karl Popper, autore di La so­cietà aperta e i suoi nemici, sviluppa la tesi per la quale Platone, Hegel, e Marx furono i peggio­ri filosofi della storia poiché, inconsciamente, furono i padri del totalitarismo e quindi di una società chiusa, estremizzata poi per esempio nel nazismo e nel fascismo. Egli infatti sostiene che è impossibile trovare una società giusta ed è proprio per questo che tutti i tentativi svolti por­tarono ad una degenerazione. Dato lo schema platonico, in cui tutto il potere è nelle mani dei controllori, chi controllerà i controllori? La so­cietà migliore non è quella migliore in assoluto, ma quella più facilmente migliorabile di volta in volta. Ciò nonostante dobbiamo prendere in considerazione il comunismo platonico come etico, un’esigenza di assoluto disinteresse e di astratta giustizia, non un ideale o un’ispirazione di tipo sociale ed economica.

Le teorie estetiche
Secondo Platone è opportuno fare una netta di­stinzione tra: arti visive e arti melodiche.
Platone condanna fortemente l’arte visiva poi­ché imitazione, ma non come imitazione della vera realtà bensì dell’apparenza sensibile. Essa è dunque imitazione dell’imitazione, copia della copia, e si trova perciò «tre gradi lontana» dalla verità.
Essa non si indirizza alla parte razionale dell’anima, bensì a quella emotiva e irrazionale, suscitando turbamenti e vane passioni. La pole­mica di Platone è rivolta, in particolare, contro i poeti che sono erroneamente considerati gli «educatori» dei greci. Imitando le peggiori pas­sioni degli uomini, rappresentando cattivi mo­delli della divinità essi sono di fatto dei «corrutt­ori».
Sarebbe però sbagliato interpretare questo di­scorso come una con­danna indiscriminati di ogni forma artistica. Platone ci suggerisce infatti che la nuova ed autentica forma d’arte è la filo­sofia.
La filosofia infatti non imita i modelli sensibili ma direttamente le idee.
È soprattutto la musica la forma d’arte verso cui sembrano andare la maggiori simpatie del filo­sofo. Non solo nella Politeia essa è accostata alla ginnastica per la sua essenziale funzione educativa (quella di produrre l’armonia tra ani­ma e corpo), ma soprattutto nei dialoghi tardi la troviamo avvicinata alla matematica, come for­ma superiore di cultura assai prossima alla filo­sofia.
La musica, proprio per la sua componente mate­matica, ci in­troduce alla contemplazione del mondo delle idee.
Nello stato di Platone dunque sarebbe dovuto essere presente que­sto tipo di arte in modo puro e che portasse a passioni ed a senti­menti giusti. Le arti melodiche possono essere utili, a condi­zione che eccitino le passioni giuste, quelle che aiutano a tendere l’uomo verso la verità.
Secondo l’interpretazione di Karl Popper ciò si­gnificava negare l’arte, ed utilizzare quest’ulti­ma solo per dimostrare l’unione di un partito, come nell’esempio più estremo del nazismo. Se­condo Aristotele la tragedia ha una funzione ca­tartica, ossia purificatrice. Il fatto di vedere la passione oggettivata sulla scena ci permette di prendere le distanze. Platone sostiene invece che la tragedia ecciti le passioni e che quindi contagi lo spettatore, il quale si sente autorizzato a vive­re senza rimorsi le esperienze più tremende pro­prio perché le ha già viste sulla scena. Queste due posizioni ricalcano le due posizioni che oggi si hanno nei confronti della televisione: la prima, sostenuta da Karl Popper, con la celebre descrizione della televisione come «cattiva mae­stra», poiché contagia lo spettatore; la seconda, che ritiene che fin da piccoli si ha la capacità di contestualizzare il male mostrato in cartoni ani­mati e film e comprendere e distinguere realtà e finzione.

La conoscenza della natura


La filosofia della scienza platonica è contenuta nel dialogo Timeo in cui Platone descrive la na­tura come traduzione di un insieme di numeri che la regolano e la governano.
La natura ci è nota attraverso la sensazione e la conoscenza che su tali basi si fonda non può pretendere di raggiungere la certezza dimostrati­va di un sapere definitivo poiché essa stessa è fluida e mutevole.
La scienza naturale è un sapere congetturale e probabile, che non giunge, come invece fa la fi­losofia, a una verità assoluta.
Ciò non esclude tuttavia che anche la conoscen­za della natura possa avvicinarsi per gradi all’esattezza della conoscenza filosofica, si assu­me come «ipotesi verosimile» l’esistenza di una struttura razionale, di un modello ideale che ha presieduto alla sua formazione.
Già i pitagorici, affermando che le cose sono «numeri», aveva introdotto l’esattezza matema­tica nel cosmo naturale, l’ordine nel disordine.
L’ipotesi più probabile secondo Platone è quindi che il mondo si strutturi attorno a schemi di carattere matematico e geometrico: il mondo dunque è ricostruibile per mezzo delle quattro radici fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco, che a loro volta sono riconducibili ai cinque so­lidi platonici regolari e che a sua volta ogni loro faccia è scomponibile in triangoli rettangoli nei quali, come si è già visto, domina il teorema di Pitagora: teorema che governa l’intero universo.
I cinque poliedri sono collegati agli elementi se­condo questo schema:

  • Tetraedro – fuoco
  • Cubo – terra
  • Ottaedro – aria
  • Dodecaedro
  • Icosaedro – acqua
    Il quinto solido, il dodecaedro, non potendo es­sere accostato a nessuna delle quattro radici, di­venne simbolo dell’universo poiché ogni sua faccia è formata da pentagoni, dei quali se si tracciano le diagonali si ottengono via via altri infiniti pentagoni.
    Al centro del Timeo sta il grande mito cosmo­logico. In esso sta la figura del demiurgo, arti­giano divino ed essere intermedio tra il mondo delle eide ed un “qualcosa” che Platone chiama chora e definito anche come la spazialità infor­me. Il demiurgo, divino artefice che ha dato for­me e inizio all’universo, è un’intelligenza ordi­natrice, non creatrice, che ha introdotto l’ordine nel caos delle origini, avendo di mira una perfe­zione ideale espressa dall’idea del bene, l’idea cioè di produrre «il migliore dei mondi». Egli si trova in mezzo alla chora, è una figura buona e la sua volontà è quella di pla­smare le cose senza guardare verso il basso ma scrutando solo il mondo delle eide; per questo motivo cercando di imitare quest’ultime provo­ca grandi differen­ze negli oggetti prodotti. A dif­ferenza del Dio biblico, egli dunque non crea il mondo «dal nul­la», ma conferisce una forma e un ordine a una materia preesistente. Questa ma­teria delle origi­ni non è costituita dai quattro elementi, di cui sono fatti tutti i corpi, ma è il «ricettacolo» (chora) , lo spazio da cui fuorie­scono gli ele­menti visibili che prima si agitava­no in essa del tutto confusamente. Il demiurgo si serve di for­me geometriche per adattare allo spazio i quat­tro elementi qualitativi e generare, dalla loro or­dinata mescolanza, il mondo dei corpi. Un passo centrale nella cosmologia plato­nica occupa inol­tre l’anima, che non è più un elemento antropo­logico, ma cosmico, ed è iden­tificata con l’ani­ma del mondo (anima mundi). La creazione dell’anima del mondo, da parte del demiurgo è anteriore a quella dei corpi, che solo dall’anima ricevono la caratteristica loro pecu­liare, quella del movimento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *